Capitolo 21
Da quando ho ricevuto il secondo volantino, ho preso in considerazione l’idea di andare a visitare il collettivo femminista del quartiere. Un pomeriggio, dopo il caffè, sono andata con Nicolás in calle Turín, dove si tengono le loro riunioni pomeridiane.
La sede dell’Alveare nella colonia Juárez è una vecchia casa che un paio di secoli fa doveva essere sontuosa, e adesso cerca una funzionalità senza vezzi. Ha un orto, un cortile con mobili da giardino coperti da spesse stoffe colorate, una piccola biblioteca – dove sono riuscita a vedere un libro di Rita Segato e uno di Claudia Rankine – oltre a una sala adibita a baby parking. Non ho visto le stanze da letto, ma mi hanno spiegato che una parte dell’edificio è destinata all’accoglienza. I fondi provengono dalle donazioni fatte personalmente o reperite tra i conoscenti. Oltre a diverse fasce orarie di baby parking, l’Alveare offre sostegno legale e psicologico a ogni donna che lo richiede e anche lezioni di autodifesa. Mi sono ripromessa di riferire quella scoperta ad Alina e a Doris. Per motivi diversi il collettivo poteva essere utile a tutte e tre.
Nicolás ha individuato in fretta quale fosse lo spazio riservato ai suoi coetanei: una sala ampia con il soffitto alto, dove erano stati predisposti alcuni tavoli con plastilina, acquarelli e carta per fare gli origami. Un’adolescente li accoglieva con entusiasmo e li invitava a sedersi.
Noi altre ci siamo riunite in un salone attiguo, dove alcune donne stavano dipingendo striscioni e cartelloni. Sembravano avere tra i diciotto e i quarant’anni, e appartenevano a diverse classi sociali, cosa piuttosto inusuale in questa città. Parlavano tra loro con un ardore invidiabile. C’era anche la ragazza che mi aveva dato il volantino. Appena mi ha riconosciuto, ha interrotto quello che stava facendo e si è alzata per venirmi incontro. Mi ha spiegato che avrebbero portato gli striscioni alla manifestazione di quella domenica.
«Aspettami qui. Voglio presentarti Tsari. Sarà lei a coordinare il laboratorio delle cinque. Oggi parleremo delle diverse strategie per combattere la violenza. Credo che possa interessarti. Vado a chiamarla, così la conosci.»
Ho cercato Nicolás con lo sguardo. Sembrava contento di realizzare figure di plastilina, circondato da altri bambini. Mentre aspettavo, mi sono messa ad ascoltare la conversazione delle ragazze che dipingevano accanto a me.
«L’hai saputo?» ha detto una di loro. «Ieri hanno trovato i corpi di altre tre donne morte a Azcapotzalco.» Quella che parlava aveva i capelli lunghi e bianchi. Le sue mani erano macchiate di vernice verde.
«Sì» ha risposto l’altra. «A tre isolati da casa mia. L’ho sentito alla radio mentre andavo al lavoro, e sono rimasta di cattivo umore per tutta la mattina. Oggi a Città del Messico, la settimana scorsa a Veracruz, quindici giorni fa a Reynosa. Dovremmo andarcene tutte da questo paese maschilista.»
«Erano adolescenti!» ha esclamato la prima, posando il pennello a terra. «Il tizio che le ha uccise ha detto che se lo meritavano perché erano puttane, e che se fosse uscito lo avrebbe rifatto. Dovrebbero impalarlo! Lui e tutti gli stupratori» ha detto con la faccia tutta rossa e gli occhi sull’orlo del pianto.
La compagna non ha più risposto. Entrambe hanno continuato a dipingere in un silenzio lugubre, estranee alla confusione della sala.
Poi la ragazza del parco è tornata nella stanza con la sua amica Tsari, una quarantenne magra con i capelli coperti da una bandana verde. Si è presentata brevemente e ha insistito perché rimanessi al laboratorio.
Avevo una voglia tremenda di restare con loro, di fare parte, anche solo per poche ore, di quel gruppo; di parlare con altre donne della paura, della rabbia e dell’impotenza che provo anch’io quando ascolto il resoconto delle donne uccise, ma era già molto tardi e Nicolás non aveva neanche cominciato a fare i compiti. Se non lo avessi riportato subito a casa, Doris non avrebbe più acconsentito che uscissi con lui.
«Si terrà nella sala d’ingresso» ha detto Tsari, puntando l’indice verso destra.
A quel punto l’ho vista. Stava sistemando le sedie nello spazio dove avrebbe avuto luogo l’incontro. Indossava una gonna lunga che non le avevo mai visto, e si muoveva con la familiarità di chi sa benissimo quello che fa.
«Mamma!» le ho detto. «Che ci fai qui?»
Il capitolo appartiene a quel capolavoro che è La figlia unica, della scrittrice messicana Guadalupe Nettel. Il libro è stato pubblicato da La nuova frontiera nel 2020 e tradotto da Federica Niola. Questa casa editrice ha in catalogo altri libri di questa autrice - ho perso il conto di quanti suoi libri ho regalato.
Buon otto marzo a tutte le sorelle - e alle madri.






Libro molto molto bello.
Un capitolo bellissimo di un libro stupendo ❤️ buon 8 marzo!