Non ho mai preso l'autobus. Intendo quelli che girano in città, che li aspetti alla fermata e devi sapere su quale salire e dove scendere. Una volta ho preso un pullman da Jackson, Mississippi, a Denver, Colorado, per andare a vedere il papa a Strawberry Park. Era il papa prima di questo ed è stato tanto tempo fa. Non sono più cattolica, non sono più niente adesso. Ricordo dei pullmini con cui facevo avanti e indietro da scuola quando ero piccola e quelli che mi portavano al campo estivo, che non mi piaceva. Quella volta che mi è venuto il ciclo per la prima volta, ho pianto e l'infermiera mi ha fatto venire a prendere dai miei genitori. Da allora sono stata su diversi tipi di autobus, autobus turistici, autobus che ti portano all'aeroporto. Navette, si chiamano. Di quelle ne ho prese tante. Con le navette non c'è verso di sbagliare, vanno tutte nello stesso posto.
Vivo in città adesso, una città con tanti autobus che possono portarti ovunque, posti in cui vuoi andare e posti in cui non vuoi andare, e bisogna che li prenda perché oltretutto ho paura di guidare più o meno per le stesse ragioni per cui ho paura di prendere l'autobus, e cioè che non so come fare ad arrivare dove voglio andare. In macchina, poi, una volta arrivata non so dove parcheggiare, non so se ho il permesso né se bisogna pagare, se ci sono le macchinette, e se le macchinette prendono solo monete. E ho appena scoperto che parcheggiare al campus è particolarmente complicato perché devi entrarci in retro invece che di muso. Devi mettere la freccia, bloccare il traffico ed entrare nel posteggio all'indietro, senza sbattere contro le macchine accanto o buttare giù un ciclista che scende sparato dalla collina.
Ho osservato gli altri farlo con un misto d'odio e meraviglia. Molti sono studenti del primo anno. Sulle targhe si legge Illinois, Arkansas, New York. Una volta sono andata a New York a trovare un'amica e mi ha tenuto una vita ad aspettare davanti a casa sua. L'ho aspettata impalata sul marciapiede, con la valigia accanto. E poi è arrivata. Il topolino di campagna si avventura in città, mi ha detto.
Sarei pronta a mollare tutto e tornarmene a casa, nonostante me ne sia andata in un modo che preclude qualunque ipotesi di ripensamento: ho mollato il dottorato, detto addio al mio ragazzo e lasciato l'appartamento in cui vivevo, mettendo la mia coinquilina in una brutta situazione. Non ho niente a cui tornare, tranne mia madre. Potrei tornare da lei e ne sarebbe felice. Ho anche un padre. Vive con mia madre e voglio bene anche a lui, anche se non allo stesso modo. Prima che me ne andassi siamo usciti a pranzo fuori, noi due soltanto, ed è riuscito a far piangere la cameriera. Mi sa che l'hanno licenziata, perché a un certo punto è venuto a servirci il padrone del ristorante e mi si è spezzato un po' il cuore. Sono state cose piccole come queste, alla lunga, a consumarmi.
È agosto e ci saranno più di trentasette gradi. Aspetto in piedi ma poi vado a sedermi sulla collina. Non piove da un po' ma mi sento il sedere bagnato. Indosso un vestito di cotone sottile. Praticamente sono nuda. È pure scollato e mi si vede mezzo seno. Perché me lo sono messo? È stato uno sbaglio. Non c'è nemmeno una panchina alla mia fermata, o a quella che almeno credo sia la mia fermata, solo un palo conficcato in terra con un cartello che ritrae un autobus stilizzato con i finestrini grandi che sembrano occhi e un sacco di numeri che non mi dicono niente.
Quando mi decido a chiamare mia madre, ho le lacrime agli occhi. Sono seduta su questo prato da un'ora, le dico, da più di un'ora, e non ce la faccio più.
Ok, fa lei, nel panico. Che posso fare?
Sto per impazzire. Devo arrivare a casa.
Ok, dice. Ti aiuto io. Controlla il percorso degli autobus, le ordino. E dimmi cosa devo fare. Lei è in Mississippi. Io in Texas. Non ho Internet sul telefonino, posso solo chiamare e mandare messaggi. Aspetto mentre controlla. Sono quasi certa che non abbia mai preso un autobus in vita sua, nemmeno uno turistico, nonostante mi ricordi vagamente di averne preso uno con lei a Parigi. Sono quasi certa di aver preso un autobus con lei a Parigi, uno scoperto, o forse era New York. No, Parigi, ma non era un autobus scoperto. Non ricordo l'aria fra i capelli. Da allora sono stata in altri posti. Un giorno ho deciso che ci sarei andata e ci sono andata. La prima volta che ho preso un volo transoceanico ho pianto all'aeroporto perché avevo paura di andare così lontano, di volare sopra l'oceano, di quello che avrei trovato al mio arrivo. Sull'aereo sono rimasta sveglia tutto il tempo mentre la gente intorno a me si toglieva le scarpe e dormiva della grossa fino a destinazione. E poi Heathrow.
Non voglio neanche pensarci. Non piango sempre, ci penso soltanto. Penso ai momenti tristi della mia vita; ce ne sono tanti e a volte mi assalgono tutti insieme.
Devi prendere il 37, dice mia madre. Il 37 ti lascia a circa un isolato da casa tua.
Ma sono tutti 37, tutti!
Non è possibile, fa lei.
Invece sì, ne sono praticamente sicura.
Come sei arrivata stamattina?
Te l'ho già detto, ho preso il taxi! Ma non posso prenderne uno ogni volta che devo andare da qualche parte.
No, concorda, no. Ti costerebbe troppo.
Ho problemi anche con i taxi. Alcuni non accettano carte di credito e io non ho mai abbastanza contanti. Come tutti, del resto. E certi tassisti parlano troppo e mi dà fastidio, ma mi dà fastidio anche quando sono troppo silenziosi o durante la corsa parlano al telefono in un'altra lingua. Mi piace quando ti accolgono con qualche frase gentile, seguita da un paio di domande, e poi tacciono finché non li pago con la carta di credito.
La prima volta che sono salita su un taxi avevo ventun anni e mi trovavo ad Atlanta per un concerto dei Phish. Ricordo altre cose di quel fine settimana, altre prime volte. Il ragazzo con cui stavo aveva fatto un sacco di fotografie. Non le vedo da anni (forse non le ho mai viste), ma ce le ho ancora davanti agli occhi. Eccomi seduta in una stanza di motel, il mattino dopo, nel mio vestitino di spugna della Abercrombie & Fitch.
Tengo mia madre ancora un po' al telefono. Mi racconta del pranzo a casa di mia zia e chi c'era e cosa hanno mangiato e chi ha chiesto di me e cosa facevano i bambini, anche se ho già visto tutto su Facebook. Alcune vanno per il secondo o il terzo figlio e stanno acquistando casa nello stesso quartiere dove vivono i genitori. Altre hanno divorziato ma si sono già risposate. Quelle che non sono sposate hanno aperto ristoranti o fatto i soldi. Mi parla solo delle donne. Mi sono reiscritta all'università, e i miei ragazzi si rifiutano di diventare mariti.
Mi chiede se ho voglia di andare al matrimonio di una cugina di Memphis e se deve pagarmi il biglietto e se voglio una stanza tutta per me. Nel frattempo passano altri autobus. L'1, il 17, il 43, tutti tranne il 37. Avrò perso almeno quattro o cinque 37, ne sono sicura, a un certo punto ne saranno passati mille contemporaneamente. Poi lo vedo. Lui mi vede e rallenta. Corro giù per la collina e salgo. Mostro il documento all'autista perché mi hanno detto che gli universitari non pagano.
Striscialo qui, mi dice, mostrandomi come fare. Striscio. La macchinetta emette un bip risentito. Riprova più lentamente, dice. Riprovo più lentamente e stavolta esce un bip gentile e si accende una lucina verde. L'autista mi fa cenno di andare.
Mi siedo nel posto libero più vicino e mi sforzo di non guardarmi intorno. Mia madre è ancora in linea. Le dico che ce l'ho fatta, che sto bene, grazie, ciao, e mi congratulo con me stessa. Ho sentito dire che è da maleducati parlare al telefono sull'autobus. Sull'autobus guardi il cellulare o ti metti le cuffie e cerchi di non incrociare lo sguardo di nessuno, perché siete come in un limbo, un luogo di pace, e basta un niente a mandare in frantumi l'equilibrio. Solo durante il South by Southwest non è così. Durante il festival girano le palle a tutti e la gente litiga pure sugli autobus, e spesso non c'è nemmeno bisogno di prenderlo l'autobus, fai prima a piedi.
L'autista fa un giro strano, passa per una strada in cui non ci sono fermate, o almeno io non ne vedo. Più tardi scopro che è il giro per raccogliere i diurnisti. Accettiamo la deviazione senza discutere. Diurnisti, immagino che stiano pensando gli altri, povera gente, con un cenno rassegnato del capo.
Tranne gli isolati immediatamente circostanti, tutto mi risulta estraneo intorno alla casa che ho preso in affitto da un'altra mia cugina. Questa qui lavora a Los Angeles e la pago una sciocchezza. Non mi chiede altro che di spedirle la sua posta ogni due o tre settimane e dare l'acqua alle piante, ma ancora non l'ho fatto. Sono arrivata da una settimana. Povere piante, moriranno. Le riviste invece le leggo. Dovrei mandarle ogni singolo coupon e volantino che le recapitano? Leggo «Rolling Stone», «Psychology Today», «Real Simple», «Time». Leggo di cose di cui non ho mai letto. Ho messo tutto nella stanza degli ospiti e dormo in quella di mia cugina, che ha il materasso in lattice a due piazze. Non ci sono abituata, mi fa sudare un sacco, ma la stanza degli ospiti è piccola e fa sentire piccola anche me, e poi ci ho preso gusto a sudare.
Scendo alla fermata sbagliata, ma nella via giusta, e proseguo a piedi. Guardo l'autobus fermarsi alla fermata in cui sarei dovuta scendere. Ora so qual è. Penso al mio ragazzo che non è più il mio ragazzo, a quanto avrebbe voluto trasferirsi qui con me, ma ho deciso che avevo bisogno di rompere, di ricominciare da capo. Perché? Lo chiamerò e mi lascerò dire quanto gli manco.
Entro in casa e abbasso l'aria condizionata, accendo la televisione, infilo una busta di popcorn nel microonde. La casa si risveglia, dice ciao! Bentornata! Sono contenta di vederti! Ci riuscirò, penso, vedrai. Presto o tardi riuscirò a entrare in retromarcia nel posteggio e a girare liberamente per la città. Forse rischierò di investire un bel ragazzo in bicicletta che sbanderà ma non cadrà. Mi insulterà ma non ci saranno danni. Non mi chiederà il numero di telefono né diventerà l'amore della mia vita, come accadrebbe in una bella storia, una storia che non saprei raccontare. Diventerò vegetariana, nuoterò nell'acqua fredda delle sorgenti insieme a persone anziane prima che tutti gli altri si sveglino, scalerò una montagna con le scarpe sbagliate. Saprò quando aprono e quando chiudono i negozi, e come arrivare in un posto e dove parcheggiare e cosa ordinare, e avrò nuovi ragazzi che non sposerò. Ma tutto questo deve ancora accadere e ci vorrà tempo, magari più di quanto ce ne voglia ad altri, ma altri non se ne sono andati di casa. Altri non sono mai andati da nessuna parte.
Questo racconto, «Il 37» di Mary Miller, è stato scritto nel 2016. In italiano è stato pubblicato in Happy Hour, una raccolta di racconti dell’autrice [Edizioni Black Coffee 2017] e in I racconti delle donne, a cura di Annalena Benini [Einaudi 2019].
Una curiosità: le linee degli autobus a Trieste sono femminili. Sarebbe la 37. La mia linea di autobus per tornare a casa è la 10.
Buon otto marzo! ❣️
Che bello questo racconto, non conoscevo l'autrice. Un mix di debolezze e forza, molto bello! Grazie!
Mamma mia, che stress sti bus! Meno male che posso scegliere se prendere la 37 o la 33 o mal che vada camminare.
Racconto pazzesco, ritmo di letteratura altissimo. Subito nella lista dei desideri 🤣🥰